domenica 27 marzo 2011
lunedì 21 marzo 2011
I figli del serpente
Un tempo nel grande sud, vicino al Polo Elementale del Fuoco, viveva il grande Cobra d'Opale, grande elementale della terra che regnava sopra e sotto il deserto. Le popolazioni nomadi lo veneravano, in cambio di acqua e protezione, offrendogli le più belle ragazze di ogni tribù, con cui egli figliava creando dei semidei mezzi uomini e mezzi serpenti, che vivevano in pace con le tribù difendendole dai pericoli dell'insidioso deserto, e dall'oscuro Wyld.
Nacqui da una di quelle femmine, grande e forte come le rocce più scure, in un periodo di caos e mutamento, quando le Stirpi del Drago giunsero dall'Isola Benedetta per distruggere gli dei e instaurare il culto dei cinque Draghi.
Non fummo pronti alla loro disciplina, e al loro numero, così cademmo a centinaia, umani e semidei indistintamente. Venni preso e torturato da un generale della terra, che si godde le mie sevizie senza fine, costringendomi a mangiare la gente del mio villaggio per saziare la mia fame senza fine.
Poi giunse un uomo, anziano e severo, che calmo giunse di fronte a me, e poggiandomi una mano sul muso, infuse in me una prigione per la mente, potevo vedere ma non guardare, potevo perrcepire ma non sentire, e le mie movenze erano artificiali, controllate da una volontà più grande della mia.
-Vai e uccidi i tuoi fratelli, senza pietà- disse la voce dell'uomo nella mia mente, e come fidato cane io obbedìì, versando lacrime di sabbia.
Caddero in molti, forse non tutti, ma di sicuro la totalità di quelli che conoscevo. Il sistema era semplice, loro mi accoglievano per ciò che ero, e io li uccidevo appena se ne presentava l'occasione.
Quando non ce ne furono più, e il culto del Cobra d'Opale era sostenuto solo da poche centinaia di ribelli, il vecchio se ne andò e venni dimenticato in carcere, a morire come pietra sotto l'acqua.
Il generale della terra morì, e io diventai proprietà di suo figlio, che si dilettò in giochi ancora più crudeli del padre, incidendo le gemme che componevano le mie scaglie con scalpelli di giada.
Una cosa bramava il mio cuore, l'unica che mi aveva sempre tenuto in vita, e che ora era più forte che mai: vendetta, accompagnata dal massacro indiscriminato di tutti quei miseri umani che avevano soggiogato il deserto.
feci appello al mio ormai debole padre, e al suo sangue, e sentii la sua potente risposta. Crebbi, gonfiando a dismisura i miei muscoli di pietra, il mio muso di allungò e i miei occhi normalmente gialli mutarono in pozze di buio rosso, folle e smisurato. Strappai le catene che mi imprigionavano, e afferrai il misero umano ai miei piedi, infilando le mie mani artigliate nel suo sterno, aprendo crudeli piaghe nelle sue costole, ma senza toccare gli organi vitali. Lo bloccai a terra con la coda, spezzai tutti gli arti con uno schiocco sordo, e lentamente mi feci strada con il muso nelle sue viscere, mescolando gli odori con la lingua prima di tuffarmi in quel sontuoso banchetto umido e caldo. Vidi la sua energia bianca spegnersi lentamente, e sapevo che se avesse potuto emettere fiato avrebbe pregato me di finire presto il lavoro.
Uscii dalla cella, senza che nessuno potesse fermarmi, raccolsi il grande martello di quella famiglia, con la testa somigliante a un drago, e andai verso l'estremo sud, dove i miei adoratori attendevano un leader che li avrebbe portati verso la guerra.
Nacqui da una di quelle femmine, grande e forte come le rocce più scure, in un periodo di caos e mutamento, quando le Stirpi del Drago giunsero dall'Isola Benedetta per distruggere gli dei e instaurare il culto dei cinque Draghi.
Non fummo pronti alla loro disciplina, e al loro numero, così cademmo a centinaia, umani e semidei indistintamente. Venni preso e torturato da un generale della terra, che si godde le mie sevizie senza fine, costringendomi a mangiare la gente del mio villaggio per saziare la mia fame senza fine.
Poi giunse un uomo, anziano e severo, che calmo giunse di fronte a me, e poggiandomi una mano sul muso, infuse in me una prigione per la mente, potevo vedere ma non guardare, potevo perrcepire ma non sentire, e le mie movenze erano artificiali, controllate da una volontà più grande della mia.
-Vai e uccidi i tuoi fratelli, senza pietà- disse la voce dell'uomo nella mia mente, e come fidato cane io obbedìì, versando lacrime di sabbia.
Caddero in molti, forse non tutti, ma di sicuro la totalità di quelli che conoscevo. Il sistema era semplice, loro mi accoglievano per ciò che ero, e io li uccidevo appena se ne presentava l'occasione.
Quando non ce ne furono più, e il culto del Cobra d'Opale era sostenuto solo da poche centinaia di ribelli, il vecchio se ne andò e venni dimenticato in carcere, a morire come pietra sotto l'acqua.
Il generale della terra morì, e io diventai proprietà di suo figlio, che si dilettò in giochi ancora più crudeli del padre, incidendo le gemme che componevano le mie scaglie con scalpelli di giada.
Una cosa bramava il mio cuore, l'unica che mi aveva sempre tenuto in vita, e che ora era più forte che mai: vendetta, accompagnata dal massacro indiscriminato di tutti quei miseri umani che avevano soggiogato il deserto.
feci appello al mio ormai debole padre, e al suo sangue, e sentii la sua potente risposta. Crebbi, gonfiando a dismisura i miei muscoli di pietra, il mio muso di allungò e i miei occhi normalmente gialli mutarono in pozze di buio rosso, folle e smisurato. Strappai le catene che mi imprigionavano, e afferrai il misero umano ai miei piedi, infilando le mie mani artigliate nel suo sterno, aprendo crudeli piaghe nelle sue costole, ma senza toccare gli organi vitali. Lo bloccai a terra con la coda, spezzai tutti gli arti con uno schiocco sordo, e lentamente mi feci strada con il muso nelle sue viscere, mescolando gli odori con la lingua prima di tuffarmi in quel sontuoso banchetto umido e caldo. Vidi la sua energia bianca spegnersi lentamente, e sapevo che se avesse potuto emettere fiato avrebbe pregato me di finire presto il lavoro.
Uscii dalla cella, senza che nessuno potesse fermarmi, raccolsi il grande martello di quella famiglia, con la testa somigliante a un drago, e andai verso l'estremo sud, dove i miei adoratori attendevano un leader che li avrebbe portati verso la guerra.
giovedì 17 marzo 2011
Estratti dal Libro Rosso III: Diana
Che di lei non conosca
che la perlacea cute, o la corvina chioma
importa poco di fronte alla sua magnificenza.
Siede fiera e consapevole
del suo potere sul mondo,
mi perdo nei suoi occhi
pozze di buio profondo
e abbasso lo sguardo per non farvi ritorno.
Sarà la sua voce come cantico?
Rispecchierà antichità il suo nome?
Nel disturbato silenzio notturno,
come cacciatrice di uomini,
Diana è il suo nome, per i miei sensi.
che la perlacea cute, o la corvina chioma
importa poco di fronte alla sua magnificenza.
Siede fiera e consapevole
del suo potere sul mondo,
mi perdo nei suoi occhi
pozze di buio profondo
e abbasso lo sguardo per non farvi ritorno.
Sarà la sua voce come cantico?
Rispecchierà antichità il suo nome?
Nel disturbato silenzio notturno,
come cacciatrice di uomini,
Diana è il suo nome, per i miei sensi.
Estratti dal Libro Rosso II: Perdono
Frenetico è il destino di chi vuol perdonare
Almeno una volta,per ritualità
Tacer il chiasso dell'avvisaglia
Come cotone nei timpani.
Mal è la vita, e ben lo sappiamo
Ma dell'esperienza facciam virtute
E peregrinando senza sentieri
giungiam in luoghi a noi ignoti.
Serriam le palpebre silenti
E ci fidiam ancora una volta
Di questo dio che mal ci ha voluto
Nel donarci un peso invece della grazia.
Almeno una volta,per ritualità
Tacer il chiasso dell'avvisaglia
Come cotone nei timpani.
Mal è la vita, e ben lo sappiamo
Ma dell'esperienza facciam virtute
E peregrinando senza sentieri
giungiam in luoghi a noi ignoti.
Serriam le palpebre silenti
E ci fidiam ancora una volta
Di questo dio che mal ci ha voluto
Nel donarci un peso invece della grazia.
mercoledì 16 marzo 2011
Estratti dal Libro Rosso I: Gli occhi del gatto (liberamente ispirato a Poe)
E ancora una volta vidi l'occhio del felino, limpido che mi squadrava mentre la mia consorte tumulata veniva liberata dal suo intonacato sepolcro. Come note di un requiem suonavan i picconi sull'argilla, mentre la bestia si ostinava a fissarmi, languida e desiderosa della sua vendetta.
Torvo si fece il volto degli armigeri alla vista del cadavere che giaceva nella nicchia di quel che era stato un camino, mentre il cuor mio ancora si ostinava di batter con regolarità. Fu inevitabile il mio sorriso sarcastico mentre offrivo i polsi ai gendarmi, lasciandomi senza sforzi trasportare ove avrei giaciuto prigioniero, e presto sarei stato condannato.
Fredda e spoglia era la cella ove mi trovavo, costretto a dormire su un umido pagliericcio, molto simile al pelo di un animale, quando la luce calò nella stanza. Una macchia nera aveva oscurato la fioca luce della luna, ma il riflesso di una gemma al suo centro mi diede indizio su cosa la macchia fosse.
Il gatto nero era là, nuovamente a fissarmi da un punto per me irraggiungibile, e per quanto io tentassi di prenderlo, egli non muoveva muscolo, paziente. Inquietato ma stanco giacqui sotto la sua vigile guardia, in attersa dell'alba.
Mi svegliarono presto, e mi condussero al processo, ove come un timbro su ceralacca il giudice firmò la mia condanna, mandandomi direttamente al patibolo.
Davanti al ceppo giaceva la bestia, silente, godendo senza emozioni lo spettacolo preannunciatasi.
Cadde la mia testa nel cesto, recisa dalla mano sapiente del boia, e mentre vivevo gli ultimi istanti della mia vita separato dal mio corpo, vidi il gatto nero giocare allegramente con uno dei miei occhi.
sabato 5 marzo 2011
Serata all'artemisia
C'è forse sensazione migliore del calore diffuso provocato dalla degustazione di un bicchiere d'assenzio, preparato secondo rito classico, e bevuto composti tra persone dello stesso lignaggio?
Quel fantastico stillicidio quando l'acqua ghiacciata cade sulla zolletta, innaffia il gotico cucchiato forato, e lenta si unisce al verde finchè la bevanda non è louche, permettendo a ogni singola erba di uniformarsi in quello che altrimenti sarebbe il festival dell'anice.
Il primo assaggio, che riempie bocca e nari di aromi unici, lasciando che un piccolo fremito di godimento si espanda lungo la spina dorsale.
Bere lentamente, contemplando come il calore si espande alle dita, le gote arrossiscono e la mente si apre, creativa.
La leggera delusione quando il bicchiere finisce, dimenticata nella consapevolezza che sarà concesso ancora un assaggio.
Un peccato che non fossimo in un cafè-concert in mezzo a un gruppo di intellettuali di un certo livello, ma a parte alcune eccezioni in un baretto dove la legge vigente era l'avvinazzarsi random, la quale ovviamente produce relitti di umanità e parodie non indifferenti, sopportabili solo da pochi eletti troppo sobri o troppo ubriachi per badarci.
Mi mancano un po' certi ambienti di crescita, c'è troppo degrado.
Quel fantastico stillicidio quando l'acqua ghiacciata cade sulla zolletta, innaffia il gotico cucchiato forato, e lenta si unisce al verde finchè la bevanda non è louche, permettendo a ogni singola erba di uniformarsi in quello che altrimenti sarebbe il festival dell'anice.
Il primo assaggio, che riempie bocca e nari di aromi unici, lasciando che un piccolo fremito di godimento si espanda lungo la spina dorsale.
Bere lentamente, contemplando come il calore si espande alle dita, le gote arrossiscono e la mente si apre, creativa.
La leggera delusione quando il bicchiere finisce, dimenticata nella consapevolezza che sarà concesso ancora un assaggio.
Un peccato che non fossimo in un cafè-concert in mezzo a un gruppo di intellettuali di un certo livello, ma a parte alcune eccezioni in un baretto dove la legge vigente era l'avvinazzarsi random, la quale ovviamente produce relitti di umanità e parodie non indifferenti, sopportabili solo da pochi eletti troppo sobri o troppo ubriachi per badarci.
Mi mancano un po' certi ambienti di crescita, c'è troppo degrado.
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