lunedì 25 aprile 2011

Mercoledì 20 aprile 2011

Un'altra sera in un buio angolo illuminato da una misera lampada da ufficio, a scriver le mie memorie informatiche, stringhe di dati che nessuno leggerà, andando esse a perdersi nell'etere col tempo e il rinnovamento della tecnologia.
Amerei molto di più una vecchia Olivetti, la compagnia del suo monotono suono mentre ritmicamente lascio che le mie dita cadano pesanti sui tasti, come inesperto pianista, brevi campanelli quando la linea giunge al termine, e via nuovamente in un susseguirsi di toni identici.
Eppur son qui, volendo che qualcuno leggesse i miei scritti solitari, così patetico nel cercare quelle misere attenzioni che richiedo e che mai mi vengon donate, così solo da scrivere a me stesso per rompere il flusso di pensieri di decadenza che mi attanaglia senza sosta.
Non era così che immaginavo l'inizio delle mie vacanze, seduto su una sedia rotta accatastato dove capita mentre l'aroma chimico della vernice avorio inonda le mie nari, ricordandomi i lavori che accadon nella mia camera. La figura che avevo in mente era di poco conto certo, ma a modo suo bella, in un baretto senza alcun significato a bere fino all'intorpidimento sensorio, e poi viaggiare con la mente in compagnia di pochi fedeli che stimolassero il mio estro per allontanare volti familiari ma terribili dalla mia mente, creando un singolare vuoto caleidoscopico in cui poter notare mille sfaccettature diverse dalla grigia realtà.
Una chitarra solitaria accompagna il mio scritto, simile a messa da requiem gridata con infinita disperazione, unghie sulla scura lavagna che si spezzano lasciando sangue come scia di identità. Non riesco a non ascoltare la cantilenante malinconia delle note, l'unico modo di lasciare questo grigio è scendere ancora, lentamente, finchè perfino la vista sparisce e il grigio non si nota più, sostituito dal caldo nero, compagno in ogni istante.
A tratti escon volti, passati e nuovamente presenti, stranamente simili nella fisionomia, nel colore, nella gioia, ma forse è solo la mia idealizzazione che li accomuna, così alta da esser ad ogni istante precaria, quando non ormai mutata in negatività o viceversa. Troppo umano, ancora troppo umano.
Vedo i loro corpi intrecciarsi col mio, sudati nella loro lubricità, vogliosi ancora di me, anche quando il corpo finisce resta l'Io da consumare, più intimo di qualsiasi tessuto, più profondo di qualsiasi baratro. Mi chiamano a loro come cane fedele, con parole gentili e gesti d'affetto, mentre ancor una volta rifuggo dai sentimenti, dalla necessità di qualcuno, poiché troppo dolorante e mai guarito. Mi desiderano perché scappo, perché sparo ogni molecola del mio organismo verso il nulla piuttosto che verso loro, cedere significa soccombere ancora, subire ancora quella dolce umiliazione sfociante nell'ennesimo dolore che potrebbe costarmi davvero troppo stavolta.
Mi piacerebbe in realtà arrivare a una certa decisione, credo sarebbe pacificatrice, delicata, indolore, eppur mi sembra di occorrere ancora a qualcosa, oppure di non aver svolto lo scopo, e dunque persevero vessato dal destino e dal crudele universo.
Sogno un viaggio in mondi n-dimensionali, ove spazio e tempo non contano più, dove le geometrie si intersecano in oscure strutture inimmaginabili, poter giacere su quello che non più è angolo senza provar dolore, mentre uno spettro iridescente rappresentante un nuovo spazio si crea davanti a me.

Inserito il 25/04/2011 data la conclusione di ferie.

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